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venerdì 18 novembre 2016

Incomunicabilità e corsi di comunicazione

Quando ero bambina, andavano di moda i film sull'incomunicabilità. Uno dei più famosi registi italiani che se ne occupava era Michelangelo Antonioni e la protagonista era spesso Monica Vitti, prima che scoprisse in sè la vena comica.

Ricordo le lunghe e struggenti inquadrature, i silenzi, un'atmosfera generale di malinconia: così la chiamavamo prima che la definissero depressione cronica.

Devo ad Antonioni la mia antipatia per l'incomunicabilità. Non mi sembra intelligente essere incapaci di comunicare, fra esseri umani. Siamo così piccoli e soli in quest'angolo di universo, dove la vita sembra essersi manifestata per un miracolo. Siamo così piccoli e soli di fronte al mistero della vita e della morte che la nostra incomunicabilità può essere paragonata alla lotta dei celebri capponi di Renzo, in visita dall'Azzeccagarbugli. Incomunicabilità: una faccenda ridicola, dunque. Invece, non è così.

Prima o poi, ci caschiamo tutti: incomprensioni, fraintendimenti, aspettative non realistiche mai dichiarate, presunzione, egoismo, ignoranza. Tutte queste parole, dalla prima all'ultima, ci riguardano tutti quanti, nessuno escluso. C'è chi le ha sperimentate in dose maggiore, chi in dose minima (complimenti!), ma ciascuno di noi sa bene di che cosa parliamo e, almeno una volta nella vita, è caduto in trappola.

Ecco perché si insegna a comunicare in maniera efficace e gli esami non finiscono mai, come ben diceva De Filippo.

Recentemente, una mia allieva, di professione insegnante, mi diceva indispettita che, nel suo caso, andare a scuola di comunicazione non sarebbe servito, perché chi insegna deve essere naturale. Che diamine voleva dire? Molti scambiano la scuola di comunicazione con la fabbrica di frasi fatte, da ripetere a memoria, come si fa con le poesie.

Mi sarebbe piaciuto chiederle (ma forse sarebbe stato troppo brutale) perché non continuasse a vagire per chiedere qualcosa. Il primo segnale di richiesta di attenzione, per un essere umano, è infatti un vagito. Tutto ciò che segue è appreso.

Il bambino naturale, di cui spesso si parla, non esiste. E' infatti un bambino ideale, che non si trova nella realtà, visto che il condizionamento, o meglio, l'apprendimento, comincia nel grembo materno e, chissà, forse anche prima.

L'incomunicabilità è una faccenda seria: è l'origine del conflitto in famiglia, in azienda, fra etnie, religioni, filosofie, partiti politici. E' causa di guerre, morti e devastazioni. Ecco perché me ne voglio occupare. Mi piacerebbe contribuire, nel mio piccolo, a porre un freno alla barbarie.

Tengo corsi, non perché io sia immune da queste mancanze, ma perché sono abbastanza  consapevole delle trappole, che ho studiato e che, con umiltà e tenacia, mi sforzo di evitare o gestire nella vita di ogni giorno. A volte ci riesco, altre no. Ma, almeno, non scaravento tutta la colpa sugli altri. Mi assumo volentieri la mia parte cospicua di responsabilità.

Detto questo, quali sono i primi passi per superare la barriera dell'incomunicabilità?
Tutto parte dalla presa in carico dei propri modelli di pensiero: schemi mentali, pregiudizi, stereotipi, credenze assimilate nel nostro percorso,  dalla famiglia, dalla scuola, dall'ambiente. Non esiste uno schema perfetto. Esiste solo l'apertura mentale, la capacità cioè di immaginare che esiste qualcosa al di là del proprio orto rassicurante, fatto di regole e schemi che ci sono stati passati o che ci siamo costruiti noi stessi, generalizzando le nostre esperienze e catalogandole, in modo da saperle riconoscere (diciamo noi) o da saperle replicare, lamentandoci, in seguito, perché...capita sempre a noi.

Una volta noto lo schema di partenza, si tratta di metterlo in discussione. o di sospenderlo e di imparare ad ascoltare gli altri senza giudizio, perché anche loro hanno schemi, a volte simili, a volte no. Attenzione, non troveremo mai l'anima gemella, quella che ci assomiglia in tutto e per tutto, a meno che non decidiamo di relazionarci per sempre con la nostra immagine riflessa in uno specchio.

Ecco, un buon corso di comunicazione dovrebbe aiutarmi, prima di tutto, a fare questo.

martedì 30 agosto 2016

La trappola dell'ego


Il paradiso perduto


Nella filosofia yoga, tutta la pratica, la meditazione in particolare, ha come obiettivo lo scioglimento dell’ego, che è la fonte principale della sofferenza. L’uomo anela ha ricongiungersi con il Sé Universale, a ritrovare quello stato di grazia che molto ricorda il paradiso terrestre delle religioni monoteiste.

Harold S. Kushner, il rabbino autore del libro “Nessuno ci chiede di essere perfetti, nemmeno Dio”, ci offre una versione interessante del passo biblico relativo alla cacciata dall’Eden. Lo riporto qui di seguito.

Davvero Dio ci ha messi in un bel guaio. Se l'autore biblico avesse voluto insegnarci che Dio ci ritiene eterni minorenni da sorvegliare a vista, forse avrebbe scritto il capitolo in un modo decisamente diverso: "Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare e seducente per gli occhi, e il serpente le disse: "Mangiane, poiché quando ne avrai mangiato, diventerai come Dio". Ma la donna rispose: "No, il Signore ci ha ordinato di non mangiarne, e non disobbedirò". E Dio chiamò l'uomo e la donna e disse loro: "Poiché avete ascoltato la mia parola e non avete disobbedito al mio comando, grande sarà la vostra ricompensa". Disse all'uomo: "Non dovrai lavorare. Trascorrerai i giorni in ozio e il cibo crescerà intorno a te". Alla donna disse: "Senza doglie partorirai i figli e li alleverai senza dolore. Da te non avranno bisogno di nulla. I figli non piangeranno la morte dei genitori, né i genitori quella dei figli". A entrambi disse: "Per il resto della vostra vita, avrete lo stomaco sazio e il sorriso pago. Non conoscerete né il pianto né il riso. Né desiderio, né appagamento del desiderio". E l'uomo e la donna invecchiarono insieme nel giardino, cibandosi ogni giorno dei frutti dell'Albero della Vita, ed ebbero molti figli. Intorno all'Albero della Conoscenza del Bene e del Male l'erba crebbe alta fino a nasconderlo alla vista, poiché nessuno se ne prendeva cura".[1]

Il progetto di Dio, dunque, secondo la tradizione giudaico-cristiana, ci vede come creature responsabili, adulte.

Già, adulte. Non conosco parola più impegnativa di questa. Essere cacciati dall’Eden è il prezzo da pagare per godere della libertà e del privilegio dell’autodeterminazione. Noi siamo responsabili di ciò che ci accade e abbiamo la possibilità di scegliere. Il nostro ego è dunque necessario alla nostra sopravvivenza.

E allora, perché mai lo dovremmo annullare? In effetti, la vita è un intrigante gioco di sottili equilibri e l’ego dovrebbe rimanere sveglio, quel tanto che basta per garantire la sopravvivenza del nostro corpo fisico e mentale. Quando eccede, però, sono guai seri.

Con la meditazione yoga, si cerca di domare quella scimmia impazzita che è la nostra mente, sempre pronta a saltellare da un ramo all’altro, da un pensiero a un altro pensiero.

Qualcuno riesce a realizzare il vuoto della mente, che, se raggiunto, permette di sentirsi in perfetta fusione con il Sé Universale, con un ego, se non proprio sciolto, almeno ridotto ai minimi termini.

Dopo un’esperienza di questo livello, come è possibile rimanere intaccati dalle emozioni negative? In effetti, la meditazione è spesso consigliata alle persone che hanno problemi a gestire la propria emotività, proprio per questa ragione.

Sulla base delle esperienze che ho accumulato nel corso degli anni, mi sento di sollevare una sola piccola perplessità.

Ho tenuto corsi di comunicazione all’università, nelle aziende, e, da un po’, tengo queste lezioni anche a futuri insegnanti di yoga e di meditazione.

L’ultima lezione che regalo loro riguarda la coerenza.

Fate ciò che dico, non imitate ciò che faccio


“Io ho studiato meditazione con il Maestro XY. Lui sì che è uno bravo. Solo così si riesce a sciogliere l’ego e, modestamente, come lo sciolgo io, l’ego, credo siano in pochi a farlo”.

La mia lezione, solitamente, comincia con una provocazione come quella che ho appena riportato. Il bello è che gli studenti, prima di scoppiare a ridere, impiegano qualche secondo. La questione è seria: significa che qualcuno, questa frase assurda, l’ha pronunciata per davvero.

Per non parlare di quel maestro di meditazione che sentii, un giorno, dire, con fare sprezzante, a un collega: “Tu non hai capito nulla della nostra filosofia.”, sottintendendo “solo io ne sono il legittimo detentore”.

Purtroppo non sono facili battute. Piuttosto, sono la prova del fatto che non basta seguire una pratica per raggiungere l’obiettivo, occorre anche crederci, quindi essere coerenti con sé stessi.

La stessa cosa si può estendere a qualunque area, dallo Yoga della Risata (“certo che come rido io, non ride nessuno” …) allo Yoga (“Visto che asana riesco a fare? Mica come voi…”).

Ma i fedeli cristiani non sono da meno (“Come si permette di entrare in chiesa quella peccatrice? Lei non è una donna pia e osservante come lo siamo noi…).

Potremmo continuare così per ore. L’ego è una vera e propria trappola e nessuno ne è immune. L’ego giudica, si difende, si sente attaccato, non si sente compreso, lotta e, alla fine, fa danni agli altri, riuscendo anche a renderci infelici. Un vero e proprio sabotatore.

L’esperienza di Bollate mi era stata di grande aiuto. “Chi sono io per giudicare?”, disse lo stesso Papa, quando alcuni giornalisti lo incalzarono su un tema da loro stessi ritenuto scottante.

Gesù, ai lapidatori dell’adultera, rivolge la celebre frase “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

L’ego giudica ed è il giudizio a fare danni. Ecco perché, alla parola “giudizio”, preferisco la parola “discernimento”, la capacità di distinguere il bene dal male. Era l’albero del bene e del male la pianta, nell’Eden, con il frutto proibito. Discernere è indispensabile alla sopravvivenza, giudicare può fare male. Un po’ di ego ci aiuta a vivere, l’eccesso di ego è invece deleterio.

Come si tiene a bada un ego troppo esuberante? Qualcuno predica l’umiltà, ma anche questo è un concetto astratto. A me piacciono gli esempi concreti. Per quanto mi riguarda, ho deciso di usare l’autoironia. Cerco di prendermi in giro da sola, quel tanto che basta per tenere a bada i sussulti dell’ego. In più mi faccio anche una risata. L’ho consigliato ai miei studenti. Vantarsi di riuscire a domare il proprio ego è aver perso in partenza la propria battaglia. Quando ci peschiamo in fallo, meglio ammetterlo e riderci su. In fondo, ha ragione Kushner: non dobbiamo mica essere perfetti.





[1] Harold S. Kushner, Nessuno ci chiede di essere perfetti. Nemmeno Dio.

sabato 30 luglio 2016

D.M. 2 - I porcospini di Schopenhauer

Si intitola così un libro,di Consuelo Casula, che lessi molto tempo fa e che fu per me di grande ispirazione.

Vengo da una famiglia carica di emotività. Basti dire che soffrono tutti, o hanno sofferto, di ipertensione arteriosa e le morti per crisi cardiaca o aneurisma, tra i miei consanguinei, sono state frequentissime.

L'ansia e tutte le reazioni emotive fanno dunque parte del mio DNA. Da ragazzina esplodevo per un nonnulla, qualunque scempiaggine, detta dalla prima persona che passava vicino a me, aveva il potere di ferirmi. Le mie relazioni ne soffrivano,ovviamente. Ora potrei dire "Se potessi tornare indietro...(segue elenco delle cose che non rifarei o che farei diversamente)...". Soprattutto, quanto tempo perso a prendermela inutilmente.

Con il tempo,con l'esperienza,grazie alle dure prove della vita, posso dire di aver imparato a gestire la maggior parte di queste emozioni negative. La perfezione non è di questo mondo,si sa. Può ancora capitare che qualcosa mi faccia spazientire, ma capita sempre più raramente e,soprattutto, la durata e l'intensità delle emozioni si sono ridotte drasticamente. Mi hanno aiutato lo yoga, il respiro consapevole, la spiritualità e molte persone incredibili che ho avuto la fortuna di incontrare.

Ma veniamo ai porcospini di Schopenhauer. Ecco,in breve, la metafora del filosofo tedesco.

« Alcuni porcospini, in una fredda giornata d'inverno, si strinsero vicini, vicini, per scaldarsi reciprocamente,in modo da evitare di morire assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell'altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali. finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.
Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l'uno verso l'altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li respingono di nuovo l'uno lontano dall'altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere.
A colui che non mantiene quella distanza, si dice in Inghilterra: keep your distance! − Con essa il bisogno del calore reciproco è soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. − Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli. »


A seconda della cultura, la distanza si allunga o si accorcia. Noi italiani tendiamo a stare abbastanza vicini al nostro interlocutore,anche se non siamo in stretta confidenza. Se entrate nell'ufficio del vostro capo, tedesco, questi si terrà a una distanza regolamentare ben più ampia della vostra. Chi,come me, ha lavorato nelle multinazionali, girando un po' il mondo, si è forse divertito a osservare queste differenze.

Ricordo che, nel mio primo viaggio di lavoro negli USA, le domande invadenti del taxista riguardavano il mio lavoro e,in particolare,il mio stipendio, mentre, in Italia,continuavano a tempestarmi di domande sulla mia vita privata. Volevano sapere perché non fossi sposata, perché avessi scelto di fare carriera, perché non avessi ancora un figlio... Porcospini duri da digerire, per me, allora...

Una mia cara amica ,ora, dice di invidiarmi un pochino per la cordialità dei rapporti che stabilisco con quasi tutte le  persone che incontro e per la cordialità che queste stesse persone mi danno a loro volta.

Ho provato a riflettere su che cosa sia cambiato in questi anni, perché il cambiamento è avvenuto in maniera così naturale,che quasi non me ne sono accorta nemmeno io.

La prima cosa che mi viene in mente è il lavoro, che mi ha obbligata a relazionarmi di continuo con gli altri, nonostante fossi, in origine, timida e vulnerabile. Quindi,il primo ingrediente è l'allenamento.

Da solo però non basta. Il farsi male di continuo porta a fare proprio come i porcospini della favola: altalenare tra due diversi dispiaceri, quello della solitudine e quello della ferita reciproca.

Il secondo ingrediente è guardare in faccia le proprie paure. Io avevo sempre avuto una grande paura della solitudine. In realtà, quando ero stanchissima, dopo una giornata di lavoro, avevo bisogno di recuperare e avevo imparato ad assaporare quei momenti in cui potevo starmene in pace a leggere, a guardare un film, a meditare. Imparai a stare bene anche da sola.

Il terzo ingrediente, quello che affonda le radici nella spiritualità, è amare i porcospini e accettarli per quello che sono. Non posso pretendere che un porcospino si spogli delle sue spine per fare piacere a me. Del resto,  anch'io sono un porcospino e sono in grado di fare del male, magari inavvertitamente, con leggerezza,ma pur sempre provocando un danno. Perciò,meglio non nutrire false aspettative e imparare piuttosto ad apprezzare,rimanendo qui e ora, il dolcissimo calore che ci si può donare reciprocamente. Ciò è  possible solo a condizione che si sia  consapevoli di avere entrambi il dorso coperto di aculei.


martedì 7 giugno 2016

Diversity Management 1 - La volpe e la cicogna.

Sto preparando una serie di lezioni da tenere all'Università, l'anno prossimo, sul Diversity Management: gestione della diversità in ambito aziendale, diversità che non interessa solo il genere, ma comprende qualunque tipo di caratteristica etnica, culturale, fisica, mentale.

Sappiamo tutti che cosa si intende per "normale": quella  famigerata gaussiana che comprende la stragrande maggioranza di un campione di popolazione. Normale non significa "giusto" o "eticamente auspicabile": in un campione dove sia diffusa la violenza, Gandhi e Gesù sarebbero
 i diversi (e infatti entrambi furono uccisi per questo).

Sotto la bandiera della normalità (la legge della maggioranza) si sono commessi i più grandi crimini della storia: genocidi, torture e ogni tipo di efferatezza. Ma questo è solo un preambolo.

L'argomento di cui vorrei parlare in questo primo capitolo sul diversity management trae ispirazione dalla favola di Fedro, intitolata "La volpe e la cicogna".


LA VOLPE E LA CICOGNA

Un giorno la volpe invitò a pranzo la cicogna 
e servì del buon brodo dentro un piatto molto largo e basso 
che la cicogna non riusciva a bere a causa del suo becco.
A sua volta la cicogna invitò la volpe;
preparò un pasto succulento che servì 
dentro una damigiana con l'apertura assai stretta;
la cicogna mangiava avidamente grazie al suo becco 
ma la volpe non poté assaggiarne neanche un poco.
Alla fine la cicogna ammonì:
<< L'esempio l'hai dato tu, sopportane le conseguenze. >>

La morale della favola si può riassumere nel famoso detto "Non fare agli  altri ciò che non vuoi sia fatto a te". Ma cerchiamo di andare un pochino oltre.


Molti anni fa, in uno dei miei primi colloqui di lavoro dopo la laurea, incontrai un simpatico dirigente di una famosissima azienda informatica formata da tre lettere... Costui mi fu di grande aiuto: grazie al suo consiglio, io venni assunta, superai tutte le prove, perfino l'ultima, quella delle domande a tiro incrociato, dove una serie di persone ti sottopone a un fuoco di fila di domande e provocazioni per verificare a quale punto ti salteranno i nervi... Io fui assunta ma opposi il "gran rifiuto". Mentre loro stavano ancora pensando a quali prove sottopormi, io avevo trovato impiego in un'altra multinazionale, meno rigida (questo almeno era il mio pensiero di allora). Il dirigente simpatico, però, mi aveva detto una frase, che poi mi avrebbero ripetuto in tanti, in molte occasioni. Mi disse, quasi a mostrare la straordinaria larghezza di vedute del suo ambiente aziendale: "Noi, nella nostra azienda, trattiamo allo stesso modo le donne e gli uomini. Ciò vuol dire che diamo loro le stesse opportunità e, di conseguenza, chiediamo loro gli stessi comportamenti. Se c'è da scalare una montagna e portare un carico pesante, quel lavoro lo faranno entrambi, l'uomo e la donna".

Capito? Quindi, se la donna è incinta e deve partorire, non importa: che vada in montagna ugualmente, visto che percepisce lo stesso stipendio dell'uomo. Questa non è parità: piuttosto direi che  è ingiustizia, o, se preferite,  "presa per i fondelli".

L'espressione "diversity management" mi piace molto, perché non nega la diversità. La volpe e la cicogna non sono uguali. Una ha il becco, l'altra no. Hanno conformazioni strutturali diverse e, per essere trattate entrambe con rispetto, hanno bisogno di stoviglie diverse, adatte alla loro conformazione.

Spesso faccio riferimento al modello scandinavo. Quando ero responsabile marketing per il Sud Europa di una nota multinazionale, avevo spesso a che fare con colleghi del Nord Europa. La democrazia, da loro, significava soprattutto rispetto per ogni tipo di  lavoro, rispetto per ogni ruolo, rispetto per ogni individuo. Era un fatto scontato.

"Lei non sa chi sono io" è la frase più becera che, viceversa, ho spesso sentito ripetere, anche se declinata in modi diversi, in molte occasioni, soprattutto nel nostro Paese, nei nostri ambienti di lavoro. Trattare la propria segretaria da sguattera, perché percepisce uno stipendio inferiore e perché donna non è solo ingiustizia o maleducazione. E' proprio sintomo di imbecillità.

Pretendere che la collega si comporti esattamente come un uomo significa non aver capito un accidente di come vanno le cose in questo mondo.

Lasciamo perdere la Scandinavia, torniamo in Italia. La multinazionale dove andai a lavorare dopo la laurea era di emanazione Olivetti. Il grande Olivetti, da tutti noi venerato quasi come un santo, aveva una concezione del diversity management molto precisa. In azienda, le donne potevano godere di attenzioni che, tenendo conto delle loro "differenze strutturali" rispetto agli uomini, permettevano alle stesse donne  di contribuire in modo eccellente ai risultati dell'azienda, di dare il meglio di sé nella propria professione, di rendere la diversità risorsa anziché palla al piede. Le donne in Olivetti avevano diritto a un periodo leggermente più prolungato rispetto a quanto concesso dalla legge vigente, periodo di cui io stessa usufruii come "condizione di miglior favore",  per dedicarsi alla cura dei figli (allattamento). In questo periodo agevolato, l'azienda garantiva lo stipendio pieno, vale a dire integrava ciò che veniva passato dall'Inps. Avevano un asilo e un nido interni all'azienda, in modo da potersi concentrare sulla propria attività lavorativa, sapendo di avere il proprio bimbo a distanza ravvicinata, per ogni evenienza.  Nei rapporti di lavoro, il rispetto veniva insegnato nei corsi di introduzione per i neo assunti. Lo so bene, perché, dopo qualche anno, ne divenni responsabile e ne coordinai parecchi, fino al 1992.

Ecco la parola chiave: rispetto. E' il rispetto che sta venendo a mancare sempre di più. Se arrivano un musulmano o un ebreo alla mia mensa e io  offro loro del prosciutto, questo non è rispetto. Se, viceversa, arriva una delegazione dall'Iran nella mia azienda e questi pretendono che la responsabile della formazione, in quanto donna, si presenti velata all'incontro o mostri atteggiamenti servili nei confronti dei colleghi maschi, questo non è rispetto. Infatti, all'incontro con la delegazione, io ci andai a volto e capo scoperti, vestita come normalmente vestivo e parlando con i modi schietti e diretti che avevo per mia consuetudine, in quanto, appunto,  responsabile della formazione. Poi, per ricambiare il rispetto, mi trattenni dal porgere loro la mano. Accettai (un po' a malincuore...) il suggerimento del collega commerciale, perché le ragioni del "non porgere la mano" mi offendevano in quanto donna; tuttavia, non potevo esagerare nell'imporre la mia estrema "occidentalità". Furono loro, i delegati iraniani,  a stringermi la mano, in segno di grande rispetto, quando si congedarono.

Insomma, trattare tutti allo stesso modo non è giustizia. Rispettare tutti allo stesso modo è la chiave per una società veramente democratica,


martedì 3 maggio 2016

Yoga della Risata per i disabili


Non tengo quasi più sessioni nel Club della Risata. Quello che avevo fondato nel 2010 l'ho ceduto a una brava insegnante, che fu anche una delle prime partecipanti, Antonella.

Ora mi dedico quasi esclusivamente ai disabili e ai corsi di certificazione dei nuovi istruttori. Fra le persone che mi chiedono una certificazione individuale, da qualche tempo in qua,  ci sono sempre più operatori socio-sanitari, medici e psicologi.

Ho intenzione di tenere dei corsi apposta per volontari, magari giovani volontari, studenti che vogliono acquisire crediti formativi o semplicemente che vogliono fare esperienza. In questo mi sta aiutando moltissimo la psicologa che, da oltre un anno, mi ha coinvolta in un progetto per la casa di riposo di via Antonini, a Milano.

Il progetto è rivolto alle degenti del reparto Johann Sebastian Bach della Piccola Casa del Rifugio. Le signore non sono tutte anziane: alcune sono più giovani di me. Non tutte hanno deficit acquisiti: molte hanno deficit congeniti, aggravatisi con l'età. Tutte sono portatrici di handicap cognitivo, a volte anche di handicap fisico. Alcune sono su sedia a rotelle, una ha il morbo di Parkinson, un'altra è cieca dalla nascita.

La particolarità di questo gruppo è dato dalla disabilità grave insieme con la disomogeneità. Abbiamo deficit di vario tipo e di varia natura, mescolati nella stessa stanza. Ciò richiede un'attenzione particolare verso ogni singola partecipante, da parte di chi conduce la sessione.

Ciò che viene apprezzato di più è il contatto, ciò che noi chiamiamo la vicinanza affettiva. Stiamo riscontrando risultati sempre più sorprendenti. La risposta alla stimolazione creativa è infatti notevole e inaspettata. Le signore, che spesso si trovano in uno stato catatonico, durante la sessione, a poco a poco si animano, partecipano, parlano, danno perfino dei feedback.

L'atteggiamento da mantenere, durante la conduzione della sessione, è di massima apertura e di grande umiltà. Nulla può essere dato per scontato ed è meglio non coltivare aspettative.

Quando meno te lo aspetti, hai una risposta positiva, ma, se ti aspetti qualcosa, allora preparati ad affrontare l'imprevisto.

Oggi siamo riuscite a respirare, a eseguire una specie di rilassamento yoga. Non si può dire "ora inspirate e poi espirate": sarebbe troppo complicato da comprendere. Si può suggerire di annusare un fiore e poi di fare un sospiro, ma è meglio mostrare loro come si fa e poi guidare le mani della ragazza non vedente, per farlo capire anche a lei. Il fiore non può essere immaginato: deve esserci davvero. Ecco che arrivano i fiorellini di stoffa, quelli che si comperano di solito ai bambini per le festicciole. Così io posso prendere davvero un fiore tra le mani e mostrare come lo si annusa, lo posso mettere tra le mani di Sara, la ragazza cieca, perché lo possa sentire e possa eseguire l'esercizio anche lei.

L'immaginazione è una conquista e, a poco a poco, arriva anche questa. Da tempo mimiamo situazioni di gioco, avventure da vivere tutte insieme. Non tutte ci arrivano subito. Ognuna ha i suoi tempi e, se abbiamo pazienza, proprio come se ne deve avere con i bambini, i risultati arrivano...e si termina con un abbraccio, una  carezza, molti baci.






martedì 26 aprile 2016

Mi hanno proposto di candidarmi...

Mi hanno proposto di candidarmi alle prossime elezioni nel Comune di Milano. Chi mi ha fatto la proposta è un caro amico, con cui collaboro da anni. Sono rimasta incerta per qualche giorno. Poi ho rifiutato.

Tempo fa militai in politica, naturalmente senza guadagnarci nulla. Poi lasciai, molto delusa, dalle faziosità interne, dalle lotte per il potere, perfino ai livelli più bassi.

Ho un'idea della politica molto distante da quello che oggi è nel nostro Paese, forse da ciò che è sempre stata. La politica dovrebbe essere, secondo me, lo strumento per garantire a un paese la pace e la prosperità. Ma sappiamo bene che spesso non è così.

Ieri, 25 aprile, non ero dell'umore giusto. Non sono tuttora dell'umore giusto. Mi sono chiesta se fosse il caso di pubblicare lo stesso dei post. Poi ho pensato che, se pubblico solo quando sono di buonumore, entro in contraddizione con me stessa. Il libro che ho scritto, in un momento difficile della mia vita, trattava proprio di questo: del mantenersi positivi nonostante tutto.

Ma torniamo al 25 aprile e alla politica. Mia madre, ieri sera, si è ascoltata, alla radio, un servizio sulla liberazione. Lei, la guerra, se l'è vissuta da ragazzina a Milano, poi sfollata insieme al resto dell'azienda, perché già lavorava in ufficio, nonostante fosse ancora adolescente. Suo padre, mio nonno,  non fu partigiano, come qualche volta dico, per semplificare. Fu qualcosa di "peggio". Lui faceva la lotta clandestina mentre lavorava in fabbrica. In altre parole, se ne andava in giro con un bersaglio addosso. E il proiettile arrivò. Per colpa di una barzelletta contro il regime fascista, che lui aveva raccontato, fu denunciato e condannato al confino.

Intervenne il capo della fabbrica, fascista tesserato (ma brava persona, ed è importante ricordarlo, come brava persona era stato Perlasca, anche lui fascista, che salvò centinaia di ebrei). Garantì per lui. Così il nonno non andò al confino, ma finse di essere un bravo cittadino obbediente al regime, controllato, però,  dai carabinieri ogni settimana. La sua storia merita un post a parte e arriverà nell'anniversario dell'armistizio.

La mamma, che si era vissuta tutte queste esperienze, ieri sera è sobbalzata sulla sedia sentendo il numero di tonnellate di bombe che furono sganciate su Milano nella seconda guerra mondiale, dagli anglo-americani. Lo sapeva...scappavano nel rifugio in continuazione. Gli zii, che abitavano in porta Magenta, avevano dovuto lasciare la propria casa bombardata e si erano stretti tutti insieme in un bilocale,  in due famiglie.

Però, quando senti quei numeri, ti senti percorrere da un brivido.

Papà, dopo il 25 aprile, lavorava al CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) alle dipendenze di suo zio, socialista, che occupava un ruolo importante nel partito.

Papà, poco prima,  era stato, però, condannato a morte dai partigiani, mentre tornava a casa, perché scambiato per un gerarca che, evidentemente, gli assomigliava. Aveva le mani senza calli (papà era uno studente, nella vita civile, per di più violinista, quindi con mani curate...) e questo fu un indizio aggravante. Era per forza, nell'immaginario di chi lo aveva catturato,  un ricco gerarca...

Poco prima di morire, a distanza di parecchi anni da quei tempi lontanissimi, Papà mi raccontava, per l'ennesima volta, quell'episodio. Aveva, allora, circa vent'anni e, per un tragico errore, venne scambiato per un'altra persona, sommariamente processato (lui protestava inutilmente la propria estraneità ai fatti, ma non aveva documenti, per via di una vicenda altrettanto tragica da cui stava uscendo) e condannato a morte per impiccagione. Lui aveva visto impiccare i suoi compagni di prigionia da non molto tempo. Lui sapeva bene quanto atroce sia la morte per impiccagione.

Ma non bastò. Fu esposto all'ira della popolazione. Donne con bambini in braccio andavano vicino a lui, per sputargli addosso, per gridargli "Morirai, infame, porco bastardo!".

Papà, all'età di 82 anni, piangeva ancora, singhiozzava quasi e a me si stringeva il cuore nell'ascoltarlo, ma lo volli ascoltare fino in fondo. Non potevo lasciarlo così... Ricordava che lo avevano denudato, per umiliarlo ancora di più. Poi, finalmente, poco prima che venisse impiccato, come nei film, si fece avanti qualcuno che lo conosceva e che garantì per lui. Così riuscì a vivere. Ma questa volta si "arrese" agli americani, che gli tolsero i pidocchi, lo confortarono e gli diedero un lasciapassare per poter finalmente rientrare a casa, visto che la somiglianza con quell'altro individuo non lo avrebbe certo protetto lungo il viaggio di ritorno, a piedi, di cascina in cascina, fino...al CLN.

Risparmio altri racconti, che mio padre mi fece, altri racconti dell'orrore. L'orrore era stato commesso da tutte le parti indistintamente. Papà era grato agli americani, ma questi americani erano gli stessi che fecero strage di bimbi e insegnanti alla scuola di Gorla. Papà era grato allo zio socialista, ma alcuni di questi  partigiani lo avevano condannato ingiustamente. Il nonno aveva combattuto i fascisti, ma un fascista gli aveva salvato la vita.

E allora? Il 25 aprile dovrebbe perdere ogni connotazione di parte, secondo me. Come mio padre, come mio nonno (il padre di mia madre), ho un solo ideale: che la gente possa vivere in pace, con spirito di solidarietà e di accoglienza, perché non c'è fazione, c'è un solo gruppo di individui, che si chiama umanità.

Ecco perché non mi schiero con nessuno e voglio essere totalmente libera di amare gli altri, chiunque essi siano.

mercoledì 6 aprile 2016

C'era una volta

...una regina. Così cominciai a raccontare,alcuni anni fa,a un gruppo di dirigenti, attenti come bambini. All'epoca, questo era il mio modo di reagire al conformismo aziendale che,spesso,mi andava un po' stretto.

Buttavo lì una provocazione prima dell'intervallo, poi riprendevo come se nulla fosse,lasciando che la palla passasse ai partecipanti.

Quel giorno avevo detto "Ora ci prendiamo un caffè (ma quanti caffè mi bevevo?), poi vi racconto una favola". Ci eravamo ingoiati quella porcheria nerastra della macchinetta.Poi,come al solito,avevo ripreso il corso come se nulla fosse.

Loro,però, non si erano dimenticati. "E la favola?". Allora,come avrebbe fatto la loro mamma, ,mi rivolsi a un gruppo di direttori del personale e responsabili della formazione, e raccontai loro la storia.Non me l'ero inventata. La fiaba esisteva già in un libro dedicato ai giochi creativi.

C'era una volta una regina, molto affascinante, ricca e potente. Era rimasta sola, dopo la morte del re,in un castello pieno zeppo di diamanti e di rubini. Nello stesso castello viveva la giovane principessa,bella come il sole. Le due giovani donne conducevano così la loro agiata e solitaria esistenza, finché, su un bel cavallo bianco, capitò da quelle parti un giovane principe, anche lui bello come il sole. La principessa si innamorò di lui immediatamente, e lui ricambiò il suo amore.Ma la vedova nutriva ancora qualche velleità:se ne innamorò pure lei.E qui cominciarono i guai. Sì, perché la regina era potente. Si può dire che avesse il potere assoluto. Fu proprio in virtù di questo potere che impose ai due giovani, in un pigro pomeriggio in cui i tre se ne stavano nell'immenso parco,un orribile gioco. "Ora metterò due pietre in questo scrigno:un diamante e un rubino." disse la regina,che aggiunse "Poi chiuderò lo scrigno ed estrarrò una pietra.Se uscirà un diamante,tu,mia cara principessa, ti prenderai principe,castello,con tutte le ricchezze che contiene,e io me ne andrò per sempre. Se,invece,uscirà un rubino, allora io mi piglierò tutto e sarai tu a dovertene andare."

La regina,di soppiatto,infilò lesta due rubini nello scrigno.Ma la principessa si accorse di questo suo gioco sporco, e allora decise di....

A questo punto, il mio racconto si interruppe e proposi ai miei partecipanti di mettersi nei panni della principessa.

In fondo, a volte,funziona così anche in azienda. Ti accorgi,per caso,che un potente sta giocando sporco e tu potresti esserne danneggiato. Che cosa fai? Vai allo scontro frontale, rischiando il tutto per tutto? Lo smascheri? Lo denunci? Sei consapevole delle possibili conseguenze? Subisci? Te ne vai? Chiedi aiuto a qualcuno? Sei sicuro di poterti fidare? Giochi d'astuzia anche tu? Ne sei capace? Non c'è una soluzione giusta,come non c'è una soluzione sbagliata. La consapevolezza di ciò che sei,dei tuoi valori,di ciò che davvero vuoi, ti faranno prendere la via "giusta per te".L'importante è che tu ne sia convinto.

Erano stati creativi, molto. Mi ricordo quel tale che propose di dividere perfino le attenzioni del principe...

Mentre sentivo elencare le loro inclinazioni al compromesso, mi ricordai di quando io stessa avevo sentito narrare quella medesima favola da una mia amica psicologa,che poi,in separata sede,mi avrebbe messa in guardia da...me stessa. La mia reazione da partecipante,infatti,fu la seguente: "Ma , scusa, la regina è anche la mamma della principessa? Se io fossi la principessa,  le ricorderei che,come madre,lei non può che volermi bene,così come io ne voglio a lei.Non è possibile,in queste condizioni,farsi la guerra".

La diagnosi della mia amica fu la seguente: "Stai molto attenta. Tu ami il tuo lavoro e sei tendenzialmente fedele ai tuoi capi. Il problema è che dai per scontato il rapporto di reciproca lealtà.Mettendo l'affettività nel lavoro,rischi  grosso. La"regina" gioca sporco e tu credi che sia capace di sentimenti altruistici, sia pure nei confronti di un collaboratore? Cioè...di una principessa?Ma sei pazza?".

Mi sto ancora domandando se avesse ragione.


martedì 22 marzo 2016

Rimettere le cose al loro posto

Non brillo per le mie qualità casalinghe. Sono sempre stata molto distratta e, a volte, questo è stato per me un vero e proprio guaio.

Anni fa, ero talmente assorta nello studio che stavo facendo, per di più mentre ero seduta nel mezzo loto su una sedia, che non mi accorsi di avere la camera allagata. La lavatrice si era guastata e mia madre se la prendeva con me, chiedendomi dove avessi la testa. Credo di averla guardata sorridendo, come se mi trovassi in un'altra dimensione.

L'essere così "svanita" fin dalla nascita mi permette ora di invecchiare senza spaventarmi a causa di inevitabili smemoratezze. Scherzi a parte, ogni tanto, anche per una "svitata/svanita" come me è necessario fare ordine.  Vinco la pigrizia e mi trasformo in una macchina da guerra...

Oggi ho buttato qualche sacco nei cassonetti della "ricicleria" e, così facendo,  mi sono sentita più leggera.

Facendo ordine fisico, buttando via molti oggetti, quasi in una ritualità di abbandono, mi sentivo decisamente meglio. Alcuni oggetti sono legati a storie del passato che, con il tempo, stavano diventando gabbie mentali, altri invece sono da recuperare, perchè scaldano il cuore.

Così, in piena consapevolezza, ho destinato qualche gioiellino di gioventù a mia figlia e ho tenuto per me solo un piccolo, semplice anello, cui sono molto legata. La scritta incisa su questo anello, di valore economico decisamente non rilevante, è in lingua tibetana e significa "amore mio". Sono anche riuscita a metterci accanto la fede di mio padre, che non reca alcuna incisione. Tenere ciò che mi piace, lasciar andare ciò che ha perso significato, non significa per me  rinnegare il passato, semplicemente vuol dire congedarsi.

Ho poi aperto la mail. Una mia amica mi chiedeva della meditazione hawaiana Ho'oponopono. Guarda un po'. Significa "mettere le cose al loro posto". La ripetizione delle frasi "Mi dispiace, perdono, grazie, ti amo (I'm sorry, please forgive me, I thank you, I love you) agisce in questo modo: pulisce tutto ciò che deve essere pulito, apre la coscienza ad accogliere l'amore.

Naturalmente, funzionano altrettanto bene anche altre forme di meditazione, oppure la semplice preghiera. Mi riferisco alla preghiera semplice, di tipo francescano, di affidamento alla volontà divina, piuttosto che alla preghiera "bancomat", quella che chiede, in modo incalzante,  che qualcosa di preciso diventi realtà. A volte noi crediamo che quel qualcosa sia necessario alla nostra felicità e non immaginiamo che ottenerlo potrebbe rivelarsi, alla lunga, improduttivo o addirittura doloroso. Ecco perché è molto più saggia la preghiera di totale affidamento a una Intelligenza Superiore (il "sia fatta la tua volontà" del Padre Nostro, tanto per intenderci).

Nello Yoga Nidra si suggerisce di non scegliere la propria risoluzione (sankalpa) se non quando si è pronti per farlo, quando si ha chiara quale sia la nostra autentica missione di vita. Altrimenti, la potenza della meditazione potrebbe indirizzarci verso qualcosa di fuorviante.

Rimettere le cose al loro posto è una tappa importante, secondo la mia esperienza, perché consente di rinascere ogni volta che lo si desidera.

lunedì 29 febbraio 2016

Chi sono io?

Ve lo siete mai chiesti? Chi sei tu? Chi sono io?

Generalmente estraggo dalla borsetta un biglietto da visita e così mi tolgo il pensiero.

Oppure, mi leggo la presentazione sulla quarta di copertina, o metto in fila le cose che ho fatto nella mia vita.

A seconda del contesto, mi posso definire come un fisico, un'insegnante, una figlia, una mamma, un'amica, un'innamorata (sempre della stessa persona...), una consulente aziendale, un'operatrice olistica, un'interprete, una casalinga disperata, una paziente, una cliente, una gran rompiscatole. Sono tutti ruoli, modi di essere, aspetti più o meno simpatici di me. Potrei dire che qualcuno è più importante o mi è più caro di altri. Per esempio "mamma" batte "insegnante" dieci a uno, "innamorata" batte fisico, "amica" batte "consulente", e così via. Ma cambia poco.

Un tempo qualcuno mi disse una cosa tenerissima, anche se abbastanza complicata. Mi disse che tutto si spiegava con la trasformata di Fourier. Ecco una frase carina che non può essere infilata in un cioccolatino, ma va a finire dritta dritta nei ricordi di studi fatti troppo tempo fa. Così cercai una spiegazione, magari poco scientifica, ma umanamente accessibile. Non la trovai. Perciò quello che farò ora sarà un tentativo maldestro di spiegare che cosa intendeva il mio amico.

La trasformata di Fourier permette di descrivere matematicamente una funzione dipendente dal tempo nel dominio delle frequenze. La funzione viene scomposta nella base delle funzioni esponenziali con un prodotto scalare. Questo è ciò che si chiama "spettro della funzione". Ma la cosa sorprendente è che la funzione è invertibile. A partire dalla trasformata di una funzione si risale alla stessa funzione. Chiaro ora? Mah...

Diciamo che era un modo un po' "nerd" di dirmi che, qualunque cosa io fossi diventata, sempre, tramite trasformata di Fourier, si sarebbe potuti tornare alla vera essenza di Loretta :-)

E allora quale è la vera essenza? Ciascuno la può interpretare come vuole. Quando io ricordo mio padre, scelgo su quali frequenze sintonizzarmi, magari mia madre ne sceglie altre. Sempre, però, arriviamo all'essenza di Papà, una parte della Coscienza Infinita che pervade l'Universo ed è fatta  di amore infinito.

Ecco perché essere se stessi vuol dire prendere contatto con quella parte che costituisce la nostra essenza.

Ci si arriva a volte con la meditazione. Si prende consapevolezza del corpo fisico. Anche quello cambia in continuazione (accipicchia, se cambia!). Diciamo con il corpo fisico, qui e ora.
Si ripete mentalmente "io sono", finché sparisce "sono", finché sparisce "io", finché rimane la vacuità, quella vacuità rassicurante in cui non c'è bisogno di dire nulla, dove tutto è presente e tutto si fonde.

Buona giornata. :-)



martedì 9 febbraio 2016

Che cos'è lo Yoga Nidra

Il bello di questa pratica è che non devi fare nulla. Rimani immobile per tutta la durata della sessione, nella posizione detta Shavasana (posizione supina), magari con una calda coperta addosso, se fa freddo. Segui una voce guida, che rispetta una sequenza precisa. Non dovresti dormire, anche se a volte può accadere, quando si è molto stanchi o poco avvezzi alla pratica.

Da qualche tempo tengo un corso e i miei partecipanti, qualche volta, condividono con me e tra di loro le loro sensazioni. Non sempre c'è una storia da raccontare. Ci si accontenta anche solo di staccare la spina per un po'.

Qualcuno dice che una sessione di trenta minuti equivalga a quattro ore di sonno profondo.

I benefici dello Yoga Nidra sono molteplici e ci sono, anche qui, diverse scuole di pensiero al riguardo.

Ho sperimentato lo Yoga Nidra, timidamente, nel carcere di Bollate, con alcune detenute. Avevo qualche perplessità a proporlo. Il giorno che lo feci per la prima volta ebbi un successone, di gran lunga superiore a quello che avevo ottenuto facendole ridere.

Si dicevano tranquille, serene, in pace. Una di loro stava scontando una condanna all'ergastolo. Era lei quella più entusiasta.

Così mi venne in mente una possibile ragione di questo risultato da me tanto inaspettato. Con la meditazione ci si lascia andare e può capitare che la mente smetta di tormentarci con pensieri, ricordi, giudizi. In realtà, meditare significa proprio questo: smettere di pensare. Se, però, provo a sospendere il corso dei pensieri, subito mi rendo conto della difficoltà di questa impresa. Più mi concentro sul silenzio, più mi si affollano le chiacchiere mentali.

La guida, invece, mi costringe a concentrarmi su qualcosa di preciso. E' così che, alla fine, ci si lascia andare davvero, senza forzature. Si entra in contatto con il Sè profondo, con la parte migliore di noi stessi. Ecco che, in questo modo, anche una persona tormentata dal rimorso riesce a entrare finalmente in contatto con la propria "scintilla divina": una grande consolazione e, perché no, un possibile seme di cambiamento.

Lo Yoga Nidra aiuta moltissimo nel cambiamento e riserva molte altre sorprese a chi lo pratica. Gli antichi saggi lo usavano per raggiungere l'illuminazione, lo stato di beatitudine.

domenica 3 gennaio 2016

Il 2016 è incominciato

Il 2016 è incominciato e ci siamo fatti gli auguri, tutti quanti. Ogni anno lo facciamo, ogni anno abbiamo aspettative e buoni propositi.
Sui buoni propositi, niente da dire.
Sulle aspettative, qualcosina la direi. Ho sperimentato più volte, nella mia vita, che le aspettative sono la trappola dell'infelicità.
Nutrire aspettative significa alimentare l'insoddisfazione.
E allora? Dovremmo rinunciare ai sogni? Niente affatto.
I sogni alimentano la fantasia, la gioia, la voglia di vivere. L'importante è lasciarli come sono: liberi e puri. Non inquiniamoli con le aspettative. Se è in nostro potere fare qualcosa per aiutarli a realizzarsi facciamolo: trasformiamoli, cioè, in obiettivi.
Altrimenti, facciamone oggetto di preghiere. A proposito, anche le preghiere non dovrebbero contenere aspettative, non sono come le tessere del bancomat. Piuttosto sono espressioni di fiducia, di ringraziamento, di accettazione, di speranza, di accoglienza, di tutto ciò che sentiamo nel profondo. Mi sono riletta di recente uno scritto di Carlo Maria Martini sulle preghiere dei non credenti e devo dire che è stato di grande ispirazione.   Perciò, auguro a tutti un anno libero dalle aspettative e pieno di serenità.

A breve qualche post sullo Yoga Nidra e qualche traccia registrata :-)