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martedì 7 giugno 2016

Diversity Management 1 - La volpe e la cicogna.

Sto preparando una serie di lezioni da tenere all'Università, l'anno prossimo, sul Diversity Management: gestione della diversità in ambito aziendale, diversità che non interessa solo il genere, ma comprende qualunque tipo di caratteristica etnica, culturale, fisica, mentale.

Sappiamo tutti che cosa si intende per "normale": quella  famigerata gaussiana che comprende la stragrande maggioranza di un campione di popolazione. Normale non significa "giusto" o "eticamente auspicabile": in un campione dove sia diffusa la violenza, Gandhi e Gesù sarebbero
 i diversi (e infatti entrambi furono uccisi per questo).

Sotto la bandiera della normalità (la legge della maggioranza) si sono commessi i più grandi crimini della storia: genocidi, torture e ogni tipo di efferatezza. Ma questo è solo un preambolo.

L'argomento di cui vorrei parlare in questo primo capitolo sul diversity management trae ispirazione dalla favola di Fedro, intitolata "La volpe e la cicogna".


LA VOLPE E LA CICOGNA

Un giorno la volpe invitò a pranzo la cicogna 
e servì del buon brodo dentro un piatto molto largo e basso 
che la cicogna non riusciva a bere a causa del suo becco.
A sua volta la cicogna invitò la volpe;
preparò un pasto succulento che servì 
dentro una damigiana con l'apertura assai stretta;
la cicogna mangiava avidamente grazie al suo becco 
ma la volpe non poté assaggiarne neanche un poco.
Alla fine la cicogna ammonì:
<< L'esempio l'hai dato tu, sopportane le conseguenze. >>

La morale della favola si può riassumere nel famoso detto "Non fare agli  altri ciò che non vuoi sia fatto a te". Ma cerchiamo di andare un pochino oltre.


Molti anni fa, in uno dei miei primi colloqui di lavoro dopo la laurea, incontrai un simpatico dirigente di una famosissima azienda informatica formata da tre lettere... Costui mi fu di grande aiuto: grazie al suo consiglio, io venni assunta, superai tutte le prove, perfino l'ultima, quella delle domande a tiro incrociato, dove una serie di persone ti sottopone a un fuoco di fila di domande e provocazioni per verificare a quale punto ti salteranno i nervi... Io fui assunta ma opposi il "gran rifiuto". Mentre loro stavano ancora pensando a quali prove sottopormi, io avevo trovato impiego in un'altra multinazionale, meno rigida (questo almeno era il mio pensiero di allora). Il dirigente simpatico, però, mi aveva detto una frase, che poi mi avrebbero ripetuto in tanti, in molte occasioni. Mi disse, quasi a mostrare la straordinaria larghezza di vedute del suo ambiente aziendale: "Noi, nella nostra azienda, trattiamo allo stesso modo le donne e gli uomini. Ciò vuol dire che diamo loro le stesse opportunità e, di conseguenza, chiediamo loro gli stessi comportamenti. Se c'è da scalare una montagna e portare un carico pesante, quel lavoro lo faranno entrambi, l'uomo e la donna".

Capito? Quindi, se la donna è incinta e deve partorire, non importa: che vada in montagna ugualmente, visto che percepisce lo stesso stipendio dell'uomo. Questa non è parità: piuttosto direi che  è ingiustizia, o, se preferite,  "presa per i fondelli".

L'espressione "diversity management" mi piace molto, perché non nega la diversità. La volpe e la cicogna non sono uguali. Una ha il becco, l'altra no. Hanno conformazioni strutturali diverse e, per essere trattate entrambe con rispetto, hanno bisogno di stoviglie diverse, adatte alla loro conformazione.

Spesso faccio riferimento al modello scandinavo. Quando ero responsabile marketing per il Sud Europa di una nota multinazionale, avevo spesso a che fare con colleghi del Nord Europa. La democrazia, da loro, significava soprattutto rispetto per ogni tipo di  lavoro, rispetto per ogni ruolo, rispetto per ogni individuo. Era un fatto scontato.

"Lei non sa chi sono io" è la frase più becera che, viceversa, ho spesso sentito ripetere, anche se declinata in modi diversi, in molte occasioni, soprattutto nel nostro Paese, nei nostri ambienti di lavoro. Trattare la propria segretaria da sguattera, perché percepisce uno stipendio inferiore e perché donna non è solo ingiustizia o maleducazione. E' proprio sintomo di imbecillità.

Pretendere che la collega si comporti esattamente come un uomo significa non aver capito un accidente di come vanno le cose in questo mondo.

Lasciamo perdere la Scandinavia, torniamo in Italia. La multinazionale dove andai a lavorare dopo la laurea era di emanazione Olivetti. Il grande Olivetti, da tutti noi venerato quasi come un santo, aveva una concezione del diversity management molto precisa. In azienda, le donne potevano godere di attenzioni che, tenendo conto delle loro "differenze strutturali" rispetto agli uomini, permettevano alle stesse donne  di contribuire in modo eccellente ai risultati dell'azienda, di dare il meglio di sé nella propria professione, di rendere la diversità risorsa anziché palla al piede. Le donne in Olivetti avevano diritto a un periodo leggermente più prolungato rispetto a quanto concesso dalla legge vigente, periodo di cui io stessa usufruii come "condizione di miglior favore",  per dedicarsi alla cura dei figli (allattamento). In questo periodo agevolato, l'azienda garantiva lo stipendio pieno, vale a dire integrava ciò che veniva passato dall'Inps. Avevano un asilo e un nido interni all'azienda, in modo da potersi concentrare sulla propria attività lavorativa, sapendo di avere il proprio bimbo a distanza ravvicinata, per ogni evenienza.  Nei rapporti di lavoro, il rispetto veniva insegnato nei corsi di introduzione per i neo assunti. Lo so bene, perché, dopo qualche anno, ne divenni responsabile e ne coordinai parecchi, fino al 1992.

Ecco la parola chiave: rispetto. E' il rispetto che sta venendo a mancare sempre di più. Se arrivano un musulmano o un ebreo alla mia mensa e io  offro loro del prosciutto, questo non è rispetto. Se, viceversa, arriva una delegazione dall'Iran nella mia azienda e questi pretendono che la responsabile della formazione, in quanto donna, si presenti velata all'incontro o mostri atteggiamenti servili nei confronti dei colleghi maschi, questo non è rispetto. Infatti, all'incontro con la delegazione, io ci andai a volto e capo scoperti, vestita come normalmente vestivo e parlando con i modi schietti e diretti che avevo per mia consuetudine, in quanto, appunto,  responsabile della formazione. Poi, per ricambiare il rispetto, mi trattenni dal porgere loro la mano. Accettai (un po' a malincuore...) il suggerimento del collega commerciale, perché le ragioni del "non porgere la mano" mi offendevano in quanto donna; tuttavia, non potevo esagerare nell'imporre la mia estrema "occidentalità". Furono loro, i delegati iraniani,  a stringermi la mano, in segno di grande rispetto, quando si congedarono.

Insomma, trattare tutti allo stesso modo non è giustizia. Rispettare tutti allo stesso modo è la chiave per una società veramente democratica,