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venerdì 11 dicembre 2015

Ridere al buio

Da qualche tempo, mia madre è ipovedente, in seguito a una maculopatia. Amava leggere e ora non può più farlo. Le sue mani erano sempre in movimento: le piaceva lavorare all'uncinetto e le piace ancora. Ma adesso, se vuole confezionare una copertina di lana, deve rallentare moltissimo i movimenti e, soprattutto, si deve affidare alla memoria. In casa è autonoma,  ha i suoi riferimenti, ma, non appena varca la soglia del suo appartamento, si sente persa. Come è facile immaginare, ha attraversato momenti difficili.

Un giorno, però, le raccontai la storia di un mio amico, anch'egli affetto da una forma grave di maculopatia. Mario è il ritratto della felicità, nonostante la sua condizione di ipovedente, pur essendo molto più giovane di mia madre (è anche più giovane di me!). E' una persona straordinaria, Master Reiki (è il mio maestro), dotato di un forte senso dell'umorismo e dell'autoironia, qualità che lo hanno salvato dalla sua normalissima reazione iniziale di sconforto. Si è semplicemente inventato un nuovo modo di vivere, rivolgendosi principalmente all'Unione Italiana Ciechi,

Fu proprio il mio amico Mario a propormi di condurre un paio di sessioni di Laughter Yoga (Yoga della Risata) nella sede dell'Istituto, famosissima, nel cuore di Milano, in via Vivaio, per un gruppo di non vedenti,  accompagnati dai loro insegnanti di orientamento e da  alcuni studenti dell'Accademia di Brera, che stavano conducendo un progetto artistico, con la loro docente,  insieme a loro.

Lì per lì, lanciai un messaggio in rete. Sapevo che il dr. Kataria aveva tenuto diverse sessioni in India. Avevo visionato i suoi video, avevo tradotto i suoi testi, in cui riportava quell'esperienza incredibile con i non vedenti. Volevo sapere se qualcuno, nel mondo, aveva provato a condurre sessioni di questo tipo. Ricevetti diverse risposte, alcune abbastanza intuitive, soprattutto per chi, come me, è abituato ad avere a che fare con persone prossime alla cecità, ipovedenti appunto. E' evidente che bisogna mantenere il luogo privo di ostacoli, presentarsi con la voce e con il tatto, eccetera. Ci fu però un consiglio, da parte di una collega australiana, che si rivelò molto prezioso, al momento della pratica. Ne parlerò poi più in dettaglio.

Alla fine, feci anch'io come il mio maestro, il dr. Kataria. Smisi di pensarci e mi lasciai guidare dal cuore.Il giorno della prima sessione, una volta arrivata nella grande sala, fui accolta da un gruppo di facce sorridenti, in trepida attesa. L'amico Mario era stato bravissimo nel fare pubblicità al'evento.

I partecipanti erano di età e condizioni diverse. Un unico punto in comune: vivono al buio. Nel presentarmi a loro, capii come il suono avesse un importanza fondamentale e capii che dovevo trasmettere i miei sentimenti con la voce. Quando sorridi, la tua voce diventa carezzevole. Più io sorridevo, più loro rispondevano illuminandosi.

Avevo paura di sbagliare, temevo di usare, per distrazione, qualche termine visivo, come “guardate”, “luce”, “osservate”. Per familiarizzare,  all'inizio, mi avvicinai a ciascuno, muovendo la mia mano timidamente verso la loro. Ognuno mi rispondeva toccandomi le braccia e, a volte, anche il viso, sempre con grande allegria. In un minuto eravamo diventati amici. Non solo, erano loro a dirmi : “che bello incontrarsi. Ci fai vedere qualcosa (si fa per dire...)?”. Ogni traccia di imbarazzo era scomparsa..

Dopo due parole di introduzione, cominciammo da seduti (era più sicuro, per me, all'inizio). Furono loro a inventare qualcosa di meraviglioso. Subito dopo aver gridato “molto bene, molto bene, yeah!”, si misero a battere i piedi sul pavimento: una vera e propria  esplosione di gioia.

Lo avrebbero ripetuto sempre, da quel momento. Era il loro modo di esprimere la felicità.

Incoraggiata dalle loro reazioni, mi lanciai e li feci alzare,  dopo aver allontanato le sedie ed esserci messi in sicurezza. Ogni tanto, però, fra di noi ci si urtava e, naturalmente, si rideva.Fu così che inventammo la risata dell'autoscontro. Esaurite le risate acustiche (tutte quelle che si basano sulla voce, come cantare,  parlare gibbersih, battere le mani su ritmi diversi), cominciammo con quelle visive, ricorrendo a un trucco che mi era stato suggerito dall'amica australiana, cui avevo fatto cenno all'inizio del racconto.

Per spiegarmi meglio, ricorrerò all'esempio della celebre risata del frullato. La si può spiegare con le parole, ma il rischio di perdersi, durante la spiegazione, esiste, in ogni caso.

Perciò, annunciai: “Ora ci berremo un frullato di risate. Passerò da ciascuno di voi e vi farò vedere con le mani come farla nel modo giusto.

L'espressione “vedere con le mani” era uscita quasi inavvertitamente. Fu sorprendente vedere il volto di Alice illuminarsi e scoppiare in un fragorosa risata, quando le presi le mani nelle mie e mi misi a mimare il gesto del frullato, facendoglielo "bere" per finta,  alla fine, ridendo.

Gli altri, incuriositi, volevano sapere anche loro. Il gioco delle mani guidate diventò, anche in questo caso, una risata nella risata.

Devo ammettere che non mi ero divertita tanto prima di allora. Avevo la sensazione di aver incontrato dei super-eroi. E davvero lo sono. Innanzi tutto, non temono il buio: loro lo governano. Hanno la capacità di affidarsi, e questo  li rende speciali. Non si danno per vinti. Molti di loro hanno studiato il Braille, per continuare a scrivere, a leggere, a lavorare, a studiare.

Sanno usare benissimo gli altri quattro sensi per orientarsi, per conoscere il mondo. Hanno la capacità di ridere perfino della loro condizione. Una di loro, togliendosi il casco, ci disse: “sono venuta in moto”. Alla nostra domanda “come? In moto???”, rispondeva “tanto, ormai la strada la so a memoria! Hahahaha”.

Ciò non significa che neghino il dolore. Alice, in preda a una risata catartica, mi diceva “Che bello! Non mi sembra vero ridere così! Quando sono sola, piango spesso, ci credi?”.

Certo che le credo. Per questo, i pomeriggi passati con loro sono stati per me un'esperienza piena di amore e di ricchezza. Mi hanno proposto il “percorso al buio”, quel celebre percorso che tante volte ho consigliato ai miei studenti e che io non avevo ancora fatto.

In quel percorso noi cosiddetti normo-vedenti siamo guidati da un non vedente attraverso una serie di esperienze, che ci permettono di capire, in un breve lasso di tempo, quale sia la loro vita di ogni giorno.

Se ne avete la possibilità, andateci. Ero in gruppo quando partecipai. La mia guida era una ragazza completamente cieca. Più di una volta, la chiamai con voce un po' esitante, per aiutarmi a uscire da un luogo, nel percorso, dove ero riuscita a incastrarmi, maldestra come sono. La birra, presa dalle sue mani, nell'oscurità più totale, fu la miglior birra del mondo, ve lo posso garantire. L'emozione è grande. Personalmente, ho imparato a non dare nulla per scontato, a mantenere l'umiltà di quando si è bambini, quell'umiltà, unita alla curiosità e allo spirito di avventura, che ci permettono di progredire e di affidarci.

Portare lo  Yoga della Risata all'Unione Italiana Ciechi e il successivo percorso al buio (regalatomi, ancora una volta, dal mio maestro Mario) sono state per me esperienze indimenticabili.

Mi sono ritrovata a guardare la città in un modo diverso, a considerare tutti gli ostacoli, le barriere, le difficoltà che queste persone devono affrontare ogni giorno.


Mi viene in mente Mario, che porta con sé un bastoncino bianco. Il suo volto è talmente sorridente, i suoi occhi sono così luminosi che il bastoncino serve (lui dice) a evitare che qualcuno, in metropolitana, di fronte alla sua domanda “Scusi, mi sa dire se questa fermata è quella di Palestro?”, gli risponda seccato “Mi prende in giro? Non lo vede anche lei? E' cieco?”. Mario si mette a ridere dicendomi questo, aggiungendo “pensa come ci rimarrebbe male nel sentirsi rispondere di sì”. E, alle sue parole, non posso fare altro che ridere insieme a lui.

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